Intervista al Dott. Antonio Lo Iacono

Antonio Lo Iacono è psicologo dal 1968 e psicoterapeuta. Presidente della Società Italiana di Psicologia (SIPs) e Presidente e fondatore della Associazione Italiana Psicologia Applicata (ASIPA). Vicepresidente e co-fondatore della Società Italiana Psicologia dell’Emergenza. Docente Esperto presso la Scuola Medica Ospedaliera di Roma e della Regione Lazio SMORRL.
Ha ideato, nel 1978, il Drammautogeno una particolare visione del mondo, della Psicologia e della Psicoterapia ed è specializzato in Analisi Bioenergetica  presso la Società  Italiana di Analisi Bioenergetica SIAB).
Poeta e navigatore da lunga data, ha scritto poesie che parlano di mare e ha fondato il 21 Aprile del 1989 l’Ass. Mareaperto Onlus, che porta in barca a vela disabili e persone soggette a disturbi nell’area psichica e motoria, avviando, anche in Italia, la tecnica della cosiddetta “velaterapia”.

Domanda: Lei, dottor Lo Iacono, come me, è nato in un posto di mare. Cosa ricorda del suo incontro con il mare e qual è il rapporto che ha con Lui?
Risposta: Nella mia memoria ci sono delle scene di un mare molto coinvolgente. Mi viene in mente il mare della Calabria, di Capo Vaticano. Avrò avuto, che so, due o tre anni. C’era un viottolo bianco. A un certo punto, li mare. Poi l’odore e il sapore in bocca della salsedine. La vista che si allarga su un blu deciso, in contrasto con una sabbia bianchissima. Pulito. Immagini. Sensazioni.

Interessante che lei abbia voluto cominciare proprio dai sensi.
Conoscere il mare vuol dire avvicinarsi a lui proprio con tutti i sensi. Lo si può ascoltare e tale ascolto infonde forza e tranquillità; si può gustare in bocca; la sua vista è inebriante; lo si può odorare; e poi il tatto: il mare circonda e abbraccia tutto il corpo che si immerge. Ci sono tutti e cinque i sensi, ma non solo: essi sono raddoppiati. E’ come se in ogni senso ci fosse un “doppio senso”. In mare avviene una sorta di amplificazione delle sensazioni.

E le emozioni?
Il mare dà anche la possibilità di entrare in contatto con le emozioni, soprattutto con la paura. Con la tua paura.
Ci sono persone che, a contatto con il mare, invece, non si lasciano coinvolgere perché non hanno superato ancora la prima paura e non riescono a lasciarsi andare. Entrare in contatto con le emozioni significa comprenderle, così, per quanto riguarda la paura, superarla. La barca e le attività di manovra a bordo, aiutano moltissimo in questo. Anche se molte persone non ce la fanno e in genere creano dei pericoli anche per gli altri. Mi ricordo anni fa, presso le Bocche di Bonifacio, una persona al timone si era bloccata per paura e la barca rischiò di andare contro gli scogli.
Nel mare a me piace rotolarmi e lasciarmi trascinare, sbattere e farmi sbattere. Questo vuol dire, in qualche modo, lottare e arrendersi. Questa è la metafora della vita. Nella vita, tante volte, lotti lotti e poi ti lasci andare. E come nella vita così nella giornata di ogni persona che si attiva, lavora, corre e poi si arrende al sonno. Il mare è uno spazio aperto e allo stesso tempo un desiderio. Dietro c’è il desiderio di vivere, ma anche quello di morire, di lasciarsi andare.

Il mare è un’entità naturale immensa che sovrasta l’uomo. Mi viene da pensare: lo rende infinito e lo confronta con la propria fine.
Vivere la vita significa confrontarsi con ciò che è più grande di noi. per sfidarlo, ma allo stesso tempo anche per autolimitarsi, per venire a conoscenza dei propri limiti, per sapere realmente chi si è, quanto si pesa. Il mare, contenitore così grande, dà la possibilità infinita di proiettarvi dentro un po’ di tutto. C’è quindi anche la possibilità di rendersi conto dei propri confini. I confini corporei ma anche i confini dell’Io. Credo che il contatto con il mare, regno infinito, ci faccia percepire la nostra finitezza, identità e consapevolezza. Oltre che metafora il mare è infatti concretezza: tanto concreto che prende per sé i due terzi circa dell’intero pianeta

Amare il mare significa anche regredire?
Certamente. Perché il mare rappresenta un elemento liquido da cui noi nasciamo e in cui siamo immersi nella fase perinatale. Questa possibilità di regredire è anche possibilità di crescere, di fare il punto e stabilire una nuova rotta. Perché cambiano i venti, cambiano gli spostamenti, le correnti, le derive, e cambiano le aspirazioni. Ed ora che sono un po’ regredito, che sono ritornato alle mie origini, posso andare altrove. Così può cambiare anche il porto di destinazione.
E poi il discorso della profondità: si può andare oltre la facciata , oltre la maschera che ogni giorno mettiamo e ci si può immergere nella parte meno visibile di noi che Freud ed altri chiamerebbero inconscio.
Ma è un’immergersi dinamico. Sappiamo che non esiste un’acqua ferma, ci sono le correnti, i flussi. E poi c’è la materia viva, i pesci, le alghe che si muovono. E la materia morta, fatta di oggetti e cose dimenticate da tempo ma che segnano comunque la memoria: io ci sono stato, io ancora servo, io ancora ho un senso e do un senso alla tua storia. Il mare dà senso alla storia del mondo ma anche dell’uomo.
E’ anche per questo, credo, che io amo le barche con la chiglia immersa e non i catamarani che viaggiano con tutto il corpo in superficie: voglio che una parte della mia barca sia immersa per stare a contatto con l’inconscio e con il cosciente, che è la superficie del mare. E la deriva sommersa in fondo alla chiglia è come un osservatorio: la parte dell’individuo che in qualche modo gli dà dei messaggi dal profondo. La deriva, non a caso, serve anche per equilibrare la barca e l’andatura.

Lei ha alle spalle una grande esperienza di navigazione? In mare si può incontrare sé stessi?
Ho un’esperienza personale significativa nei miei viaggi in mare, in barca a vela. Il posto in cui mi sono ritrovato più a casa, non è stato il mare della Calabria, né l’Italia, ne gli Stati Uniti. Ma l’India. Cercare qualcosa oltre l’orizzonte significa cercare se stessi e il paese che ci appartiene di più.
Il mare per me è un grande mistero, perché proprio per la sua vastità e difficoltà a navigarlo, ti dà per certi aspetti una grande fiducia, ma in altre occasioni ti può succedere quello che non avresti mai pensato prima. Puoi vivere a mille, ma puoi da un attimo all’altro morire. Il mare cambia in pochi minuti.

In un luogo immenso e indefinito qual è il mare, come ci si deve muovere per non naufragare?
Il mare ti dà la possibilità di trovare il tuo reale tempo. L’andare a vela non è un percorso diretto. Devi fare i bordi e per prendere il vento bisogna proseguire a zig-zag. Non esiste una rotta lineare. Questo riuscire a prendere il vento vuol dire riuscire a prendere le tue occasioni. Ogni folata di vento raccolta è un’occasione in più per sospingerti avanti. Per questo è importante andare a vela.

Ci abbiamo girato intorno. Cos’è navigare? E’ una sfida, una passione?
Navigare è prima di tutto una bella idea. Dal mio punto di vista è una salvezza, è come avere un salvacondotto. Mi viene da dire: io, male che va…navigo. Male che va, comincio ad attrezzare la randa, ad allestire il fiocco, a mollare gli ormeggi e ad abbandonare questo porto che si sta facendo un po’ stantio.
Quando si lascia un porto e si entra in mare aperto, ebbene, vuol dire che si entra in una passione. In tutti i sensi: passione vuol dire “patire”, ma anche “essere appassionato”, coinvolto per qualche cosa.
Navigare è un’opera che definirei maieutica, di nascita continua, di trasformazione.
Navigare è anche un riuscire ad usare delle energie che non sono tue e che poi diventano tue. C’è sempre bisogno di catturare il vento per muoversi e di vento può essercene troppo o troppo poco.
Navigare è un progetto, ma è anche un percorso che non può essere conosciuto fin dall’inizio. Noi sappiamo di voler arrivare vivi alla morte, ma non sappiamo quando succederà e dove. Tutti i grandi navigatori sapevano che volevano arrivare ma più che altro per loro era importante entrare nel mare, andare incontro a qualcosa di nuovo, di sconosciuto. Ecco, questo è il contrario della nevrosi, che invece rimescola continuamente delle cose vecchie. Il nevrotico si tortura con le paure del passato e con l’ansia di incontrare qualcosa nel futuro che possa essere sconosciuta e negativa per il proprio Io. Ecco perché la navigazione può essere terapeutica.
E’ un po’ come il motto della cavalleria: “Buttare il cuore oltre l’ostacolo per poi andare a riprenderselo”. Qui si butta il cuore verso una speranza metaforica e concreta insieme.

Possiamo allora essere sicuri che Cristoforo Colombo non fosse un nevrotico!
Cristoforo Colombo è l’esempio perfetto del navigatore che va per mare per cercare se stesso. Sperava di arrivare nelle Indie e invece ha trovato un’altra cosa, ma è andata bene comunque. Anzi, forse è andata meglio perché ha rivoluzionato la storia dell’uomo. Anche se ripensandoci adesso….vabbè, torniamo al mare.
L’America rimane una metafora per me. C’è un termine che si chiama “serendipity” che significa aver trovato qualcosa di importante che non si stava cercando. In ogni ricerca qualsiasi cosa si trovi è apprezzabile. Tante navigazioni sono state delle ricerche e la stessa navigazione della vita quotidiana è proprio la ricerca più grossa. In mare non c’è una strada esatta da seguire, ci si arrampica sul vento e sulle onde.

Abbiamo detto dunque che navigare dà la possibilità di strutturare la propria personalità. In che modo avviene questo secondo lei rispetto alle persone disabili?

Il mare ti mette in contatto, per certi aspetti, con il vantaggio di avere uno svantaggio. Ciò può sembrare paradossale e lo è di fatto. Spieghiamo. Proprio perché il mare dà la possibilità di risonare meglio dal proprio interno a livello sensoriale, amplificando come ho detto i sensi, un individuo disabile si può rendere conto di avere delle abilità che non conosceva molto e che lo rendono più abile di altri. Ti faccio un esempio. Avevo un compagno di bordo non vedente che si rese conto in barca dell’enorme sensibilità che aveva ai rumori. Alla fine diventò così sensibile da indicarci lui la direzione del vento e la rotta da seguire. Lui, che non aveva mai veduto, esclamò: “Ahh, che spettacolo!”. Capisci come il navigare può essere un processo molto intrusivo e molto coinvolgente, dando la possibilità di costruzione di certe parti dell’Io che in realtà non si conoscevano bene. E’ una sorta di terapia conoscitiva del sé.
Ciò avviene anche a livello fisiologico. Per esempio un paraplegico, che ha difficoltà a muoversi sulla terraferma, riesce in mare, ben assicurato alla barca, a compiere delle manovre e a muovere questa casa-barca, facendo movimenti e dimostrando abilità insperate. Mi viene in mente una bellissima poesia di Baudelaire: l’Albatros, tratta da “I fiori del male”. Questo meraviglioso uccello marino diviene goffo sulla terraferma, a causa delle sue grandi ali, ed è preso in giro dai marinai che lo catturano, “Appena posti /Sulla tolda, questi re dell’azzurro/ Ora maldestri e vergognosi lasciano/ Penosamente trascinarsi ai fianchi/ Le grandi ali bianche come remi./L’alato viaggiatore, com’è goffo/E fiacco! Lui, poc’anzi così bello/”, ma quando si libra nel cielo, diviene padrone del mondo, trova il suo spazio e la sua bellezza, le sue abilità ritrovate. …..Come il principe dei nembi/E’ il Poeta; che, avvezzo alla tempesta,/Si ride dell’arciere: ma esiliato/Sulla terra, fra scherni, camminare/Non può per le sue ali di gigante.

Quanto può sentirsi libero un disabile in barca a vela?

Tantissimo. Infatti ci sono stati dei disabili che hanno fatto in barca a vela il giro del mondo, da soli, liberi. Forse più liberi che sulla terraferma. Libertà è soprattutto desiderio di essere liberi. Certo, non è per tutti la vela. Però la velaterapia, con personale e strumenti adeguati, può essere un valido supporto alla terapia tradizionale, un’occasione in più per sfidare se stesso, per desiderare di guarire, crescere, migliorarsi; di vivere.

Partendo da questi presupposti, Lei, assieme a Giorgio D’Orazi, ha fondato “Mareaperto” nell’aprile del 1989.

Sì. Dopo un convegno intitolato “Il mare come psicoterapia”, tenuto a Fiumicino al Circolo Nautico “Capitan Achab”.

Da allora si concretizza il concetto della velaterapia. Che cos’è la velaterapia?

Beh, la velaterapia è una grossa provocazione rivolta ai nostri sistemi di riferimento terrestri. E’ la possibilità di sfidare le parti a noi più ignote e nascoste che però ci servono ad attivare tutte le nostre potenzialità che fino adesso non erano alla luce del sole. Nasce come un’idea folle condivisa fra me e Giorgio e che piano piano abbiamo diffuso, portando in mare le persone che erano più lontane da questa possibilità: disabili, paraplegici, non vedenti, qualche psicotico e via dicendo. Vedersi insieme in questo contesto e poi raccontarsi è una memoria attiva, che attiva a sua volta altri processi. Ricorderò sempre l’espressione del viso di un ragazzo psicotico che rivedendosi in un filmato al timone di una barca cominciò a ridere di gioia immaginando che prima o poi sarebbe diventato il timoniere della propria vita.

Abbiamo visto quanti significati, quante potenzialità possiede il mare. Parliamo di spazi, di tempi, di ritmi. Che cos’ha l’esperienza della vela di occasionalmente unico?

Lo spazio e il tempo sono le due dimensioni che strutturano la nostra esistenza. Il mare con il suo movimento continuo e con l’onda che va e viene rappresenta molto il ritmo esistenziale. Pensa al battito del cuore, per esempio, al pulsare del sangue. A me viene un po’ in mente il mare. Esso rappresenta inoltre anche gli scontri, gli incontri, le lotte dell’uomo che si dà da fare per rimanere vivo, per crescere, per distruggersi e rinascere. La vela, e quindi la velaterapia, è una grande scusa. E’ un mezzo eccezionale per incontrarsi e per avere l’occasione di mettere in gioco le proprie risorse autogene. Quello che io chiamo “Drammautogeno”: confrontarsi con intervalli e spazi interiori che sembrano disabitati e sono invece ricchi di energia, di risorse autogene appunto. Quello che a volte è importante è proprio curare questi intervalli interiori, silenziosi, perché, come avviene in musica, senza questi intervalli, non ci sarebbe più il ritmo. Tante volte per ritrovare il proprio ritmo c’è bisogno di mettersi in crisi e di riappropriarsi di noi stessi mediante le nostre potenzialità creative e anche ri-creative. Altrimenti significa che la persona si è addormentata e sta aspettando che qualcuno l’aiuti. Ma, come sai, in psicoterapia se qualcuno aiuta l’altro vuol dire che non lo sta aiutando. Il migliore aiuto è “aiutare ad aiutarsi”. L’andar per mare (e la velaterapia) ha proprio questo significato: aiutare la persona che pensa di stare in un disagio irreversibile, a trovare nuove risorse, nuove speranze, nuove possibilità per sentirsi vivo e per cambiare il proprio processo esistenziale.

Prendendo come punto di osservazione l’Analisi Bioenergetica, di cui Lei è maestro, e il concetto di integrazione mente-corpo, cos’è che il mare può aggiungere? o togliere, anche?

In Analisi Bioenergetica si lavora molto sul respiro e sulla corazza caratteriale e muscolare. Nella navigazione il respiro è più facilitato perché è il respiro del vento e l’aria è meno inquinata. La corazza dura viene fuori proprio quando elementi naturali ti mettono a confronto con le tue emozioni e ti possono aiutare a liberarti dalle tue paure attraverso una controreazione. Noi, in bioenergetica, facciamo urlare per liberare rabbia e paura. Spesso molti skipper e marinai tirano fuori la voce con durezza per dare ordini o farsi compagnia, o per superare il fragore del mare. In più usano molto il corpo lavorando sulle vele e al timone mantenendo sempre l’equilibrio. Inoltre, in barca, si sta sempre con le ginocchia un po’ piegate e non a caso, nella Bioenergetica di Alexander Lowen, si dà molta importanza a questo tipo di posizione, la posizione del “grounding”, che consente di sentire di più il proprio corpo e anche il proprio peso. Grounding significa avere i piedi ben piantati in terra, essere in contatto con il proprio corpo e con la verità della propria esistenza.
Ecco perché credo che l’esperienza della vela ha molto da dire e da aggiungere alla bioenergetica.

Dal punto di vista della riabilitazione psicofisica, quando e perché, secondo Lei, l’esperienza di navigare interviene con efficacia?

Tutti gli esercizi che derivano da movimenti che sono tra l’istintivo e l’appreso riescono ad essere molto produttivi a livello sia muscolare che cognitivo. Sulla vela si compiono attività fisiche che fanno muovere il corpo e lo coinvolgono emozionandosi. Tutto è molto motivato e motivante e il contesto è naturale. Dal punto di vista psicologico mi posso ricollegare al discorso sulle emozioni e sul superamento della paura di cui ho parlato prima, il tutto accompagnato da una sensazione di protezione. Perché stare dentro una barca vuol dire trovarsi all’interno di una sorta di casa familiare, di utero, di situazione protettiva che in più è in movimento. E’ come quindi se l’Io fosse più incoraggiato ad essere attivo.

Su quali caratteristiche psicologiche si può lavorare bene in barca a vela?

Soprattutto sul discorso del carattere. Si possono regolamentare le relazioni terapeutiche ed approfondire alcuni aspetti di caratteri patologici. Ti verrà voglia di bloccare il carattere psicopatico che vuole dominare gli altri e vuole fare tutto da solo, ma si naviga insieme. Ti verrà voglia di rendere più fluido il carattere di un personaggio rigido o che ha idee fisse o prevalenti e difficoltà ad essere creativo o a piegarsi ed essere mobile. Ti verrà di incoraggiare il carattere dipendente e il carattere orale a scoprire che riesce a timonare una barca anche da solo, con le sue forze. E ti verrà anche voglia di dare un calcio nel sedere al masochista e di scuoterlo come si scuote la barca, facendogli capire che non deve prendersi tutte le responsabilità degli altri e lasciarsi schiacciare da questo, ma che ognuno ha il suo ruolo e le sue responsabilità; a bordo come nella vita. E poi, in caso di burrasca, ti verrà un messaggio dallo schizoide, che ti farà capire finalmente che anche lui ha paura e non ha più bisogno di nasconderla, ma la può anche condividere con altri.

In barca è molto presente la sensazione di vivere un contesto di gruppo affiatato. Parliamo di equipaggio.

L’equipaggio ha tutte le dinamiche che ci possono essere nei gruppi. C’è bisogno di una leadership riconosciuta e ben definita, altrimenti possono esserci casi di crisi, invidie, gelosie incontrollate e molto pericolose per l’intero gruppo. C’è bisogno di una definizione precisa e dettagliata dei ruoli: ogni elemento di un equipaggio deve sapere esattamente cosa deve fare egli stesso e cosa deve fare l’altro, e se deve essere, caso mai, supplente delle funzioni di un altro che, per qualsiasi ragione, non può o non riesce a svolgere. Vi è una costruzione di rapporti che non sono legati soltanto alla simpatia, ma soprattutto ad un progetto e ad un obiettivo comune.
Inoltre in barca le relazioni e le emozioni ad esse connesse si amplificano. La barca a vela può essere un ottimo banco di prova per misurare realmente l’affiatamento tra una coppia di amanti, di amici. Si dice che in barca possono sbocciare amori eterni, ma anche distruggersi rapporti consolidati o che per lo meno sembravano esserlo.

Concludiamo. A Lei, dottor Lo Iacono, psicologo e psicoterapeuta, e a te, Antonio, come persona, cosa ti ha insegnato il mare?

Il mare mi ha insegnato ad essere un po’ più umile. Non ho mai naufragato veramente, ma ho rischiato molto in mare. A nove anni ricordo di aver avuto molta paura perché non riuscivo a ritornare a riva risucchiato al largo da un mare agitato che mi trasportava verso gli scogli, alle Grotte di Nerone ad Anzio. Poi in barca, una notte, all’isola di Ponza, avevo commesso degli errori nell’ormeggio e le onde del mare stavano per rovesciare la barca. Mi ha insegnato a non sottovalutare gli elementi naturali. Il mare va rispettato e a volte temuto. Me lo dico sempre, tutte le volte, anche se poi mi riviene voglia di sfidarlo. Mi ha insegnato a parlarci poi. Ed è ogni volta parlare con le mie profondità, con i miei istinti: la rabbia, l’aggressività, ma anche la pacatezza, la saggezza, la ricerca. So che il mare può essere molto pericoloso ma è anche spesso un grande amico. E poi c’è la paura di annegare, di sprofondare giù, di essere sommersi e sopraffatti dal mare, che posso associare un po’ alla depressione. Poi la voglia di sopravvivere e quella di distruggersi. E c’è la cresta dell’onda che simboleggia il successo, il dominio. Navigarlo a vela è tutto questo. E molto di più.